The Crown - Prima stagione
Si può quantificare il peso materiale, oltre che quello morale, spirituale e politico, che grava sulle spalle di un monarca? Nel caso della corona britannica la risposta è due chili, ce lo dice Peter Morgan il creatore di una serie tv che in quattro stagioni (ne sono previste sei in tutto) ha racimolato quasi trecento nomination tra premi vari, una cifra monstre che la dice lunga sulla qualità di questa produzione Netflix.
Ma facciamo un passo indietro e torniamo alla prima stagione e alle implicazioni che comporta indossare una corona simbolo. L’anno è il 1947 e mentre il riluttante re Giorgio VI ( Jared Harris) – costretto a prendersi regali oneri e onori causa abdicazione del fratello Edoardo VIII - ha gravi problemi di salute, Elisabetta (Clare Foy) sta per sposarsi con Philip Mountbatten (Matt Smith). Alla protagonista non rimangono che pochi anni per essere solo moglie e madre obbediente e devota. Quando nel 1952 il re muore, Elisabetta come il padre, più nolente che volente, si siede sul trono: la Gran Bretagna ha una nuova e giovane regina. Da questo momento in poi e per una imprevedibile concatenazione di eventi, a soli 25 anni, dunque, Elisabetta diventa simbolo e modello di una nazione. Non indossa semplicemente la corona, è la corona, perché la prima stagione di The Crown non è altro che un romanzo di formazione e trasformazione che si dipana in dieci episodi durante i quali la giovane regina con l’aiuto dell’allora Primo Ministro Winston Churchill (John Lithgow) riceve importanti lezioni su ciò che comporta essere a capo, non solo di una famiglia regnante, ma anche della Chiesa d’Inghilterra ed Elisabetta lo imparerà a sue spese quando si scontrerà con il desiderio della sorella Margaret (Vanessa Kirby) di sposare un uomo divorziato.
Le lezioni, però, non sono solo di tipo morale o spirituale, ma anche, se così possiamo dire, scolastiche. Stupirà molti, almeno a me ha sorpreso sapere che Elisabetta aveva ricevuto un’educazione veramente povera di contenuti. Era ferratissima nella costituzione, ma completamente ignara di altri argomenti cosa che, diventata regina, l’ha messa in difficoltà al punto da assumere un professore incaricato della sua preparazione culturale.
Ed è proprio grazie a questi particolari ed a una scrittura precisa e rigorosa che Morgan riesce a rendere i Windsor imperfetti e fragili, persone che commettono errori nonostante si sforzino di fare del loro meglio, guidate spesso da interessi individuali, dal capriccio o dall’avidità e in questo viene aiutato indubbiamente dal lavoro certosino degli attori che, se non con una somiglianza perfetta, riescono comunque a cogliere l’essenza e lo spirito del personaggio che interpretano. Le lodi vanno ripartite in ugual misura a tutti dalla inizialmente incerta poi sempre più consapevole Elisabetta interpretata da Claire Foy, costantemente divisa e lacerata dalla dicotomia pubblico/privato, all’apparentemente superficiale Filippo, Matt Smith, pronto però alla rinuncia e alla “sottomissione” fino a John Lithgow che nei panni di Churchill e contrariamente al rinunciatario Edoardo VIII e ai riluttanti Giorgio VI ed Elisabetta II fatica, nonostante la malattia, ad allontanarsi dalle stanze del potere ed ad accettare l’ineluttabile passare degli anni e l’inevitabile vecchiaia.
The Crown, dunque, oltre ad aver avuto il merito di aver portato alla luce degli episodi poco conosciuti della recente storia britannica (paradigmatica in questo senso è la puntata incentrata sul cosiddetto Grande Smog, evento climatico che colpì Londra nel dicembre del 1952), ha anche ridimensionato, almeno nell’ambito seriale, una figura come quella di Elisabetta che riesce con impegno e spirito di “servizio” a sostenere e a non soccombere sotto il peso di quei due chili di responsabilità.
Paola Di Lizia
IL GRANDE SMOG
Vero, verissimo, la catastrofe ambientale di cui si parla nella serie tv si verificò sul serio nel 1952 e viene ricordata come il peggiore caso di inquinamento atmosferico nella storia del regno unito. Talmente grave da spingere il Parlamento nel 1956 a promulgare il Clean Air Act, approvato da Elisabetta II e in vigore fino al 1964. Lo scopo? Controllare le emissioni di fumo, polvere e sabbia nell'atmosfera. Si perché stavolta lo smog in questione non aveva nulla a che vedere con l'affascinante nebbia londinese. Denso, fitto a livelli sino a allora inimmaginabili, afflisse i cittadini britannici mietendo più di 12.000 morti. Da smog “classico”, costituito da una commistione di fuochi domestici e di emissioni delle fabbriche, si trasformò in quello che fu chiamato il grande smog.
Perché? Un forte freddo costrinse la popolazione britannica a aumentare il consumo di carbone per riscaldarsi, un carbone di bassa qualità con un alto contenuto di zolfo che insieme agli scarichi delle automobili e delle industrie produsse la nebbia assassina! Una vera e propria reazione a catena. Il Clean Air Act, prevedeva l'istituzione di “aree di controllo del fumo”, si trattava in pratica di zone in cui era vietata la produzione di sostanze causa delle polveri sottili, il decentramento delle fabbriche e infine l'utilizzo nelle abitazione di gas naturale. Il decreto del 1956 costituisce ancora oggi la pietra miliare nella storia del movimento ecologista del Novecento. A questo nel 1968 ne seguì un altro, infine i due atti furono unificati nel 1993.
Stefania Viceconti